- 11 Marzo 2015
Ecco, ci mancava pure questo. Leggere il proprio diario in pubblico. Mettersi davanti ad un microfono e cominciare a raccontare, leggendo giorno dopo giorno, i propri pensieri più intimi. Il diario è di per sé quanto di più segreto possa esistere. E’ diario se puoi leggerlo solo tu e nessun altro. Io avevo un diario col lucchetto e la chiave. Ci scrivevo puttanate ma l’importante era sapere che nessuno le avrebbe mai lette e che avrei potuto scriverci qualsiasi cosa. Nel proprio diario si può scrivere di avere ammazzato qualcuno. Il diario è una cosa talmente segreta che lo sport nazionale di tutte le mamme è quello di trovare la chiavetta e leggere quello che la propria figlia non le dirà mai (generalmente vuole semplicemente sapere che cosa fa quando resta sola col suo ragazzo). Per questo quando ho letto la notizia di questa nuova moda di leggere i propri diari in pubblico ho reagito con un moto di stizza. Se io scrivo un diario per leggerlo in pubblico quello non è un diario. E’ una confessione. Ma poi ho scoperto che il diario è giovanile e la sua lettura è in età matura. Allora è diverso. In questo caso non si tratta di qualcosa che si scrive facendo finta che non debba leggerla nessuno e poi la si sparge ai quattro venti. In questo caso è puro esibizionismo ed autocompiacimento. E niente a che fare con la psicoanalisi. E’ solo tradire la propria innocenza, darla in pasto ad un pubblico di guardoni, in cambio di quattro applausi. Non mi fiderei mai di uno che legge il proprio diario in pubblico.
- 5 Marzo 2015
Ci sono delle cose che gli italiani devono sapere. Per esempio: l’amatriciana si fa con l’aglio? Prendendoci il tempo dovuto, vedremo di risolvere la questione, ma nel frattempo vi prego di non prenderla sottogamba. Mentre noi pensiamo alla legge elettorale in milioni di case può succedere che massaie superficiali ne approfittino per stravolgere uno dei capisaldi della cucina italiana. Allora, vediamo come sta la faccenda. L’amatriciana, secondo Giallo Zafferano, il sito gastronomico più famoso del web, si fa con i seguenti ingredienti: spaghetti, pecorino romano, vino, peperoncino, guanciale, pepe, olio e pomodoro. Ma ad un certo punto interviene Carlo Cracco il quale, essendo un giudice di MasterChef, ha di diritto il titolo di Grande Cuoco. E Cracco dice che lui nell’amatriciana ci mette anche l’aglio. Apriti cielo. Scoppia la guerra. Interviene il sindaco di Amatrice. Ne scrivono sul Guardian. Cracco chiede scusa. Dice: Scherzavo”. Mi chiedo: è un peccato mortale mettere l’aglio? E allora quando vado in pizzeria e chiedo una capricciosa senza capperi devo chiedere scusa preventivamente? Nel frattempo ho scoperto un sacco di cose: che non è amatriciana ma matriciana, che “mi raccomando, spaghetti, non bucatini”, che non è un piatto tipico della cucina laziale perché era il piatto tipico dei pastori abruzzesi, che il pecorino non deve essere pecorino romano ma pecorino di Amatrice, che mi raccomando guanciale e non pancetta, che è nata prima la gricia e poi la matriciana. Che dire? Grazie Cracco.
- 18 Febbraio 2015
Attenzione, questo è un Paese politicamente corretto. Questo non è il Paese dove i negri vengono chiamati neri ma poi vengono sfruttati nelle campagne a raccogliere pomodori dall’alba alla notte per poche decine di euro senza contributi e senza assistenza sanitaria. Questo è un Paese politicamente corretto, che cosa vi credete? Non è il Paese dove i derelitti del Terzo Mondo vengo chiamati extracomunitari ma vengono lasciati morire di freddo sui gommoni alla deriva in alto mare. Queste cose non succedono in Italia, perché l’Italia è un Paese politicamente corretto. Mica un Paese dove un handicappato viene chiamato diversamente abile, ma poi il parcheggio a lui riservato viene sempre occupato dai veramente abili. In questo Paese, un Paese politicamente corretto, i barboni vengono chiamati clochard, gli zingari vengono chiamati rom, i “vucumprà” non vengono chiamati per niente e non gli compriamo nemmeno una confezione di fazzoletti o l’accendino. E bisogna vederla la nostra faccia quando usciamo da un ristorante dove ci siamo sparati una fiorentina da 50 euro e non troviamo un euro da posare sulla mano del questuante. Questo è il Paese dove il drogato viene chiaro tossicodipendente, ma quando ti passa vicino con l’occhio perso tu ti scansi infastidito. Questo è un Paese politicamente molto corretto e adesso tutti quanti gliele suonano ad Arrigo Sacchi che ha usato dire che ci sono troppi stranieri, troppi giocatori di colore nelle squadre di calcio italiane. Razzista!
- 11 Febbraio 2015
Ignazio Marino ha deciso che lo slogan (il motto? la frase guida?) di Roma, d’ora in poi, sarà “Rome and you”. Bella. Avvicina la gente. E per una città che fa del turismo la sua prima industria sembra il cacio sui maccheroni. Lo chiamano logo relazionale. Qualcosa come I love New York. Secondo me funziona perché crea una specie di senso di colpa. Roma è qui e tu dove stai? Che cosa aspetti a venire nel centro del mondo? Stai a perdere tempo con cittadine come Londra e con villaggi come Parigi? Roma e You. Un rapporto diretto, d’amore. Per farlo sceglie la lingua più parlata del mondo industrializzato occidentale. Un inglese, un americano, ma anche un francese o un tedesco, vedono Roma and You e prenotano subito l’aereo. Che cosa stiamo ad aspettare? I and Rome, anzi We and Roma perché parte con tutta la famiglia. Tutto perfetto ma a mio giudizio qualcosa stona. C’è una sorta di sudditanza psicologica. L’inglese è ormai la lingua più usata nei rapporti internazionali, ma di fronte a slogan così corti e incisivi anche l’italiano non è male. Qualche anglofono avrebbe avuto difficoltà a capire “Io e Roma”? Non credo proprio, sono piccole paroline internazionali. “I”, “io”, “yo”, “je”, “ich”. Comprensibili a tutti. Usare l’italiano avrebbe aggiunto una briciola di orgoglio italico che non guasta quando si parla di turismo. E poi Roma è Roma. Non è da Marino cedere in questa maniera all’egemonia linguistica anglosassone. Proprio lui che aveva scelto come slogan elettorale il romanesco: “Daje!”
- 4 Febbraio 2015
Elezioni presidenziali: ricorderò il cagnetto Briciola, mascotte dei carabinieri. Lo ricorderò perché naturalmente se ne fregava del cerimoniale. Ricorderò Crozza con quella sua incredibile imitazione di Mattarella fatta praticamente in diretta. La battuta più bella ? “Lasciatemi rivolgere un pensiero a colui che grazie al mio insediamento può finalmente abbandonare il suo gravoso compito e concedersi un meritato riposo: Enrico Mentana”. Poi ricorderò la Flaminia Cabriolet-Landaulet 335 del 1961. Sembrava la cosa più vecchia visibile in quei giorni e invece era la più giovane. Ricorderò la voce sensuale di Laura Boldrini che come un mantra ripeteva: “Bianca, bianca, bianca, Feltri Vittorio, Imposimato punto effe”. E, perché negarlo?, ricorderò tutti quei momenti di grande emozione ogni volta che Laura diceva: Claudio Sabelli Fioretti e si sentivano salire urla di meraviglia dalle scale del palazzo di radio Due di via Asiago 10. Non scorderò mai naturalmente Laura Boldrini che diceva: “Sabelli Fioretti, no, Sabelli Fioratti, qui c’è scritto Fioratti”. Ricorderò la grande e riccioluta chioma rosso fuoco (l’unica cosa vagamente comunista che c’era in Parlamento) di Valeria Fedeli che in quel momento era la seconda carica dello Stato. Ricorderò l’articolo scritto da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Era il primo giorno da direttore e Marco scrisse una colonna di elogi al discorso di Sergio Mattarella. Il primo articolo da quando è nato in cui parlava bene di qualcuno. Un miracolo. Chissà che Mattarella, di miracoli, non ne faccia anche altri.
- 28 Gennaio 2015
Oggi parlo di tifo. Il tifo per il calcio. Perché si fa il tifo per una squadra e non per un’altra? Perché quando si fa il tifo si perde il bene della ragione? Spesso si fa il tifo per la squadra della propria città. Ma allora perché si fa il tifo anche quando la squadra della propria città ha solo giocatori stranieri? E come mai in Sicilia ci sono così tanti tifosi della Juventus e dell’Inter? Spesso il figlio fa il tifo per la squadra per la quale fa il tifo il suo papà. E il papà fa di tutto perché ciò accada. Un famoso attore tifoso romanista racconta che per convincere suo figlio piccolo a diventare tifoso romanista, un giorno, gli nascose tutti i giocattoli e gli disse: “li hanno portati via i laziali”. Il giorno dopo gli fece ritrovare i giocattoli e gli disse: “sono venuti i romanisti e te li hanno riportati”. Un bambino segnato per la vita. Il tifo è irrazionale. E fin qui niente di drammatico. Quello che è drammatico è il comportamento esagerato. I tifosi sono esagerati . Non ammettono ironia, scherzi, critiche. Una volta ho tentato di far indossare una maglietta laziale ad un romanista. E’ successo il finimondo. Il tifoso romanista è letteralmente scappato, neanche avesse visto il diavolo. Conosco persone serie, timorate di Dio, posate, prudenti, rispettosi della legge, che di fronte ad una partita non sanno comportarsi da persone civili. Vedono rigori dovunque, l’arbitro è sempre venduto, non hanno mai il minimo dubbio, solo certezze. Il tifo è veramente una malattia grave.
- 22 Gennaio 2015
Hanno beccato il prode Lapo ancora una volta. Stavolta Lapo Elkann, erede in condominio dell’impero della Fiat, si è esibito in un impetuoso parcheggio della sua Fiat Cinquecento “blu gessata” in un divieto di fermata e di sosta davanti all’elegante negozio milanese di Gucci. Sicuramente Lapo aveva una spesa urgente e improcrastinabile da fare e non poteva certo perdere tempo a cercare un posto consentito. E poi queste sono cose da poveri. I poveri passano ore a cercare un posto oppure prendono l’autobus. I ricchi no. I ricchi saltano i preliminari. Parcheggiano e chissenefrega. Voi non avete idea di quanto costi un’ora del tempo di un Lapo. Vabbé. Io e molti milioni di italiani siamo stufi di Lapo e delle sue pirlate. Non ne possiamo più di questo schiocchino superficiale che crede di poter fare tutto quello che gli passa in mente solo perché ha avuto la fortuna di nascere nella culla giusta. Lapo ci regala un’impresa al mese, ognuna caratterizzata da narcisismo, egocentrismo, arroganza, supponenza. Lapo è la versione miliardaria e – diciamo così – elegante di Fabrizio Corona. Di entrambi non mi scandalizzano più di tanto le incursioni nella cronaca nera. Quello che mi infastidisce è la loro frequente e continua incursione nella cronaca di costume. Questa loro passione per la trasgressione soft. Questo loro sentirsi al di sopra delle leggi . In una parola la loro maleducazione. Loro la considerano molto figa, per dirla come i milanesi. O paracula, come dicono i romani.
- 14 Gennaio 2015
Il massacro di Parigi dal punto di vista mediatico è stato una manna. I giornali hanno riempito le loro pagine per giorni perché gli argomenti sollevati erano tantissimi. Il terrorismo, la religione, la guerra, l’islam, il medioriente, il giornalismo, i limiti della satira, la libertà di opinione, la violenza. E’ c’è stata tanta confusione. Dopo tanti giorni vorrei provare ad isolarne uno solo, con calma. La libertà di satira. In Italia c’è stata quasi unanimità. La satira deve essere libera. E non deve avere limiti. Sono stati tutti d’accordo. Giornali che mai avrebbero pubblicato vignette contro la religione, reti televisive che hanno fatto della censura il loro cavallo di battaglia, direttori che hanno respinto al mittente quintalate di disegni satirici, editori che hanno licenziato per molto meno fior di autori di satira, politici che li hanno inondati di querele, si sono scoperti paladini della satira e della sua libertà senza limiti. Sarà bello vedere come si comporteranno alla prima occasione in cui dovranno decidere se la libertà va assicurata alla satira solo quando colpisce gli avversari oppure anche quando è rivolta a loro. Perché non è vero quello che diceva Martin Luther King che la mia libertà finisce dove comincia la tua. In realtà la mia libertà finisce quando comincio a parlare male di te. E’ una vecchia barzelletta. L’americano dice al sovietico: da noi c’è la libertà. Io posso parlar male di Obama e nessuno mi dice niente. Il russo: anche da noi c’è libertà. Se io parlo male di Obama nessuno mi dice niente.
- 10 Gennaio 2015
L’eterna telenovela dei due Marò è di nuovo al capolinea. L’Italia vuole che siano restituiti all’affetto delle loro famiglie e gli indiani vogliono processarli per omicidio. Quando i piloti americani causarono la strage del Cermis (19 sciatori uccisi nella funivia precipitata a causa di un aereo militare Usa che aveva tranciato le funi) si sosteneva – a ragione, secondo me – che l’Italia aveva diritto a processarli. Oggi invece gli italiani si arrabbiano addirittura perché l’India non concede una “licenza” natalizia al marò bloccato in India. Leggiamo che Totò Cuffaro, l’ex presidente della Regione Sicilia condannato a sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, ha chiesto al magistrato Valeria Tomassini di poter visitare l’anziana madre ottantenne. Il tribunale ha negato il permesso perché la mamma di Cuffaro ha l’Alzheimer e non potrebbe riconoscere il figlio. Commentare una motivazione del genere è solo tempo perso. Ma è interessante un’altra parte della motivazione, quella in cui il tribunale sostiene che Totò Cuffaro ha già visto sua madre in occasione del funerale del padre. Il tribunale dimentica che in quell’occasione la giustizia italiana fece una pessima figura. Cuffaro non fece in tempo ad arrivare al funerale del padre perché l’autorizzazione arrivò, sì, ma in ritardo. Direte: che fai difendi i mafiosi? Sì. Insieme a molti illustri intellettuali ben piu autorevoli di me, sono convinto che la civiltà di una nazione si misuri sulle condizioni in cui fa vivere i suoi carcerati.
- 8 Dicembre 2014
Uno sguardo positivo al futuro? Il potere del sorriso? Non è facile. Soprattutto se sei titolare di una rubrica che si chiama “senza vergogna” che ti ha abituato a relazionarti con il peggio di quello che succede, il quale peggio non stimola affatto uno sguardo positivo al futuro. Ma sforzandomi riesco a trovare qualcosa fra le notizie dei giorni passati che simbolizzi il potere del sorriso. E’ una foto. Al centro Enrico Rossi, presidente della Toscana. Accanto a lui Cassandra, Andra, Verdiata, Francesco con in braccio la piccola Narcisa. E poi Robert, Dragos, Papina, Papusa, Nadia. L’ultima a destra è Dana, la moglie di Dano, autore della foto. Enrico Rossi la mette su Facebook e la titola: i miei vicini di casa. Dodici rom tutti pieni di colori, tutti sorridenti. Eccolo il potere del sorriso nei giorni in cui gli italiani si trovano faccia a faccia con tensioni sociali e costretti a convivere con chi mette in discussione la convivenza pacifica. Ad alcuni rappresentanti della destra quei sorrisi non piacciono e invitano il presidente a farsi fotografare insieme agli alluvionati. Ma a me piace pensare che quella foto, quei sorrisi, abbiano sviluppato tutto il loro potere aiutando tutti noi a superare la barriera dell’indifferenza. E mi piace anche pensare che chi di fronte a quella splendida foto non ha saputo far altro che insultare Rossi, la sera, tornando a casa, lontano dalle platee mediatiche, si sia vergognato. E qui, vedete, la mia rubrica è di nuovo “senza vergogna”.