- 11 Settembre 2011
Tanto tempo fa chiesi ad un noto semiologo, Omar Calabrese, di analizzare per il giornale che allora dirigevo, Pm, l’impatto emotivo che poteva avere una disgrazia su ognuno di noi. Era appena caduto un jumbo e l’opinione pubblica ne era rimasta scossa. Omar scrisse un bellissimo articolo alla fine del quale realizzò una specie di equazione partendo da una domanda simile a questa: 500 eskimesi morti di epidemia a 5 mila km di distanza ci danno emozioni maggiori o minori di un bambino, figlio del nostro vicino di casa, che muore investito da un’auto? La risposta in questo caso è facile. Ma se i 500 eskimesi muoiono di infarto sotto casa nostra oggi e un vicino di casa è morto di vecchiaia in vacanza alle Maldive l’anno scorso? E’ chiaro che esistono delle variabili che, combinate in una certa maniera, fanno variare la nostra emozione la distanza, il tempo, la nazionalità, l’età, il numero, il modo.Se i morti delle Torri Gemelle fossero stati per uno strano gioco della sorte tutti italiani l’impatto su di noi sarebbe stato molto maggiore. E se, invece che dieci anni, fossero passati 100 anni, oggi saremmo qui a parlarne con molto maggior distacco. Ecco perché quelli che allora dissero con trasporto “siamo tutti americani”, forse oggi non ne sono puù tanto convinti. E pensano magari invece che “siamo tutti norvegesi”.