- 13 Agosto 2015
E va bene. Dopo 35 anni anni dagli avvenimenti, un giudice, indagando sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, ha ordinato di cercare tracce del Dna del leader della Dc nel covo delle Brigate Rosse di via Gradoli. Badate bene, non nel covo di via Montalcini dove si sa per certo che Moro fu tenuto prigioniero, ma in quello di via Gradoli, quello che fu scoperto grazie ad una perdita di acqua da una doccia, quello che era stato anche indicato a Romano Prodi durante una seduta spiritica con tanto di piattino e di tavolino dagli spiriti di don Sturzo e di La Pira per il tramite anche di due ministri, Mario Baldassarri e Alberto Clò nella cui casa di campagna si svolgeva l’interessante interrogatorio dei due trapassati democristiani. Già vedo gli agenti entrare nell’appartamento di via Gradoli alla ricerca di tracce della saliva di Moro e di qualche suo capello. E mi immagino il loro scoramento quando dovranno ammettere il loro insuccesso confessando al giudice che 35 anni, e tutti gli inquilini che si sono succeduti, hanno cancellato qualsiasi possibilità di rintracciare alcunché dell’ex presidente della Democrazia Cristiana. E per fortuna! Vi immaginate che cosa potrebbe succedere se al contrario scappasse fuori un po’ di Dna? La mossa successiva sarebbe la richiesta di scavo del Palatino per cercare la prova che sia stato veramente Romolo ad uccidere Remo. Basterebbe un tubetto vuoto di barbiturici accanto ad un po’ di cacca di Remo e la storia di Roma cambierebbe da così a così.