- 13 Giugno 2013
Già una volta in questa stessa rubrichetta ho affrontato indirettamente questo stesso problema. L’ho fatto quando mi sono messo in testa di difendere il professor Becchi, singolare sostenitore delle idee grilline. Becchi era stato insultato e vilipeso perché aveva osato sospettare che andando avanti di questo passo la politica dissennata e insensibile avrebbe potuto spingere qualcuno alla violenza. Questo concetto mi è rimasto dentro ed ogni tanto mi viene da riflettere sulle ragioni per le quali, a differenza del passato, l’estremo disagio, l’estrema povertà dei molti, l’estrema ricchezza dei pochi, l’estrema ingiustizia, non abbiano causato finora nessuna spinta rivoluzionaria. Invito subito tutti a non rompermi le scatole accusandomi di incitamento alla rivolta. Sto parlando di storia. Ricordo di aver letto uno studio della Fondazione Fiat, tantissimi anni fa, in cui si arrivava alla conclusione che ad un certo tasso di povertà corrispondeva automaticamente un’alta probabilità di moti rivoluzionari. Era sbagliato lo studio? O magari è cambiato il concetto di povertà? Oggi si considerano povere persone con una attitudine al consumo del tutto diversa dal passato. Persone che stanno male, certamente, che vivono nella disperazione, che hanno grossi problemi di sopravvivenza. Ma hanno frigo, tv, telefonino, auto, lavatrice. Poca roba, ovvio, ma sufficiente a dissuadere la gente dallo spaccare tutto. Per questo la politica ha maggiori responsabilità oggi. Deve fare bene anche senza lo spauracchio della rivoluzione.